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SVIZZERA«O sostieni il governo, o ti sbattono in prigione»

15.05.24 - 06:30
Il documentario "Prisoners of fate" racconta delle difficili condizioni di vita dei rifugiati afghani e iraniani
Filmsuite
«O sostieni il governo, o ti sbattono in prigione»
Il documentario "Prisoners of fate" racconta delle difficili condizioni di vita dei rifugiati afghani e iraniani
Sarà proiettato a partire dal 16 maggio nei cinema di Lugano e Locarno

«Meglio patire la fame che prendersi una pallottola nel c*lo». È una delle frasi pronunciate da Mahmad, cittadino iraniano sfuggito alla crudeltà del governo di Teheran e rifugiatosi in Svizzera in attesa di un permesso di soggiorno. La sua storia è raccontata nel documentario di Mehdi Sahedi, regista che per anni ha seguito e documentato la vita di molti rifugiati iraniani e afghani giunti alle nostre latitudini.

"Prisoners of Fate" racconta delle speranze e dei sogni di persone che vengono perseguitate dal proprio Stato: «O sostieni il governo, o ti sbattono in prigione», racconta Ezat, rinnegando il giorno in cui ha lasciato sua madre sola a Teheran.

Un'esistenza segnata dall'insicurezza e dalla miseria, che spinge a fuggire in cerca di pace e prosperità. «Non sono eroi, ma persone (...) con ambivalenze e contraddizioni nei loro pensieri e nelle loro azioni», spiega il regista Mehdi Sahebi.

Il documentario girato nell’arco di molti anni è una finestra sull’esistenza e la resistenza di queste persone: dalla condivisione della camera da letto, ai pasti consumati su un materasso lugubre, alle interminabili ore passate in strada: «Per anni non ho fatto altro che gingillarmi in stazione con una Red Bull in mano», racconta ancora Mahmad. 

Dal dispiegamento in Afghanistan, di cui si pente per «quello che ha fatto e per quello che non ha fatto», Mahmad è confrontato a un'amministrazione completamente cieca e insofferente rispetto alle sue reali condizioni di vita. Costretto ad attendere 4 anni prima di vedersi la porta chiusa in faccia... Poi la prigione, il ritorno in Iran, la caduta nelle mani dell'esercito turco e le torture. Disperato, torna in Svizzera con una nuova richiesta di asilo politico.

Una storia condivisa da molte persone, ridotte ormai allo stremo e costrette ad affidarsi a uno Stato che non vuole saperne di loro. 

«Mi stanno anche simpatici, ma la legge è la legge», afferma un esponente dell’UDC nel corso di una consultazione popolare in materia di politica migratoria. Momento di condivisione in cui Sanam, rifugiata afghana, racconta per la prima volta la sua storia e fa accapponare la pelle anche ai rappresentanti più insensibili: strappata dall’abbraccio del figlio, arriva in Svizzera. Segue la lunga battaglia legale per il ricongiungimento e, infine, la grazia di Simonetta Sommaruga. Una storia dal lieto fine, una di poche. 

Per gli altri è previsto l’anonimato ai margini della società. Discreti, si nascondono agli occhi di chi li giudica, lavorando se possono, mangiando se possono, sopravvivendo se possono. Prigionieri (del proprio destino) in un Paese in cui temono di essere rispediti al mittente anche solo per non aver timbrato il biglietto del bus.

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